Quando
sei nato, avevi un viso spaventato, gli occhi sgranati, fissi, immobili
come se avessi visto tutto il male del mondo e fossero incapaci di
chiudersi ancora, di battere, palpitare sul tuo tenero e dolce faccino.
Volevi venire al mondo da tanto tempo.
Da tempo spingevi, scalciavi, per uscire dal tuo caldo e sicuro rifugio, ma una corda ti teneva attaccato a tua madre.
Avvolta
al collo due volte, ti si stringeva sempre di più, ogni volta che
volevi provare a respirare con i tuoi polmoni, pure se l’aria era
inquinata e il panorama non era quel granché che ti aspettavi.
Sei
nato con un numero cucito sulla tutina e un braccialetto al piedino,
con su scritto il cognome di tua madre, per paura che ti perdessi.
Cosa tu avevi a che fare con me?
Nessuna
cosa mi ricordava che eri, che sei, figlio di mio figlio, che allo
stesso modo eri nato, soffrendo e morendo tu e tua madre per poter
risorgere ancora e di più e per dire che la vita è bella, perché è
miracolo, stupore dono stupendo e misterioso della potenza e della
misericordia di Dio.
Perché quando penso a te sto male?
A cosa penso, guardando i tuoi occhi spauriti, e sgranati, occhi grandi come fanali?
Penso a te, che sei scampato ad un naufragio, a tutti i naufragi del mondo, che hai lottato con una forza che non era la tua.
Un angelo con te ha lottato perché venissi al mondo, sciogliendo quei lacci di morte che te lo impedivano.
Forse gli occhi spauriti sono quelli dello stupore di avercela fatta,
Non ci credevi, non ci avevi creduto, con quei due cordoni attorcigliati al collo, che ti soffocavano ad ogni movimento
E
tua madre te ne aveva fatte sentire di musiche ..e noi abbiamo pensato
che stavi ballando, mentre ti muovevi nella sua pancia …chissà se la
corda l’avevi anche prima… tutto il tempo in cui le cuffie appoggiate
alla pancia ti facevano le coccole, che noi, tua madre, tuo padre, non
potevamo farti più da vicino.
Oppure
una piroetta più ardita, un salto acrobatico, di cui ti sentivi capace,
vista l’ora che si avvicinava, per conoscere i volti delle tante voci,
che ti avevano tenuto compagnia, amandoti senza vederti.
Il
mondo ti aspettava e tu aspettavi il mondo e con impazienza scalciavi,
aprivi, chiudevi le manine, stendevi i piedi, le gambe e le braccia,
perché eri ansioso di venire alla luce.
Poi
quella notte, era notte, la notte lunga, buia, angosciosa, senza fine,
degli urli, dei gemiti, del rantolo, dell’agonia di una madre che non
può far nascere suo figlio, perché lo avrebbe fatto morire.
Così, Giovanni, sei stato trattenuto ancora, per un tempo che a noi è sembrato eterno, perché non soffocassi del tutto.
Il
grido spasmodico di tua madre mi è rimasto nell’anima, ha scavato
dentro chissà quanti chilometri, giù nel profondo abisso della
memoria.Era un grido, era un pianto, era una richiesta d’aiuto, era
l’impotenza dell’uomo che chiamava l’onnipotenza di Dio.
Così
con le mani strette ad una corona, ad un rosario, ho pregato, abbiamo
pregato, perché vi ci aggrappaste anche voi, tu, tua madre, perché
usciste dal gorgo e vi salvaste dai flutti di morte.
Le
parole non le ricordo, ricordo lo sguardo fisso a Dio, Dio di
misericordia, a Sua madre perché provasse compassione di quella titanica
lotta con il serpente, che ti avvinghiava la gola.
Così
sei venuto alla luce n. 43, figlio di tua madre, ma dono di Dio, perché
il tuo nome era già scritto, sulle palme delle Sue mani, prima ancora
che fossi intessuto nel grembo di tua madre, prima ancora che tua madre e
tuo padre pensassero a te
Il tuo nome era Giovanni, è Giovanni, perché la misericordia di Dio non si misura e tu tutta in te la manifesti.